Diversi segnali indicano un’attenuazione della fiducia dell’opinione pubblica e degli stessi lavoratori nei confronti dell’azione del sindacato e dello stesso suo ruolo. Di recente, alcune notizie di stampa hanno riportato prese di posizione in proposito da parte di diversi esponenti politici e un’adesione piuttosto scarsa allo sciopero generale recentemente proclamato dai sindacati per manifestare la contrarietà ai contenuti (peraltro ancora suscettibili di modifica) della legge finanziaria, cosiddetta “di stabilità”. Ciò costituisce un serio problema, in un momento storico in cui le turbolenze economiche e le scelte decisive che si impongono in materia di economia e di assetti sociali richiedono un coinvolgimento responsabile di tutte le parti sociali, per evitare una sorta di “lotta tribale” in cui, lottando tutti individualmente per il proprio interesse particolare, si rischia di rendere irraggiungibili le soluzioni strutturali che massimizzino l’utilità collettiva.
E’ quindi necessario che si avvii una riflessione profonda su alcuni problemi che il sindacato si trova oggi ad affrontare e che il sindacato stesso provveda ad adottare tutte quelle innovazioni di carattere strutturale, organizzativo e di contenuto che la tutela dell’interesse dei lavoratori richiede in un contesto di profonde trasformazioni economiche e sociali.
E’ evidente che il sindacato presenta molti problemi di carattere strutturale nel suo modo di porsi nella realtà odierna. Il primo di questi problemi riguarda la “rappresentatività ”. Il recente accordo tra sindacati e organizzazioni datoriali ha definito dettagliatamente la nozione e la misura di rappresentanza e di rappresentatività. Ma in tale accordo la misura della rappresentatività serve a quantificare il peso di ciascuna associazione sindacale sul totale degli iscritti ai sindacati. Si potrebbe denominare questa nozione di rappresentatività come “rappresentatività relativa”. Nessun riferimento è invece fatto a quella che io chiamo “rappresentatività assoluta”, ossia la quota di iscritti ai sindacati sul totale dei lavoratori. Paradossalmente la misura proposta consentirebbe di attribuire un valore elevatissimo di rappresentatività a una associazione sindacale che raccogliesse il maggior numero degli iscritti ai sindacati (per esempio, poniamo l’80%) anche se il totale degli iscritti ai sindacati rappresentasse una proporzione esigua (poniamo, il 10%) della popolazione lavorativa. E’ evidente che c’è qualcosa di ambiguo in questa nozione di rappresentatività, che presenta due problemi: quello della rappresentanza degli interessi dei lavoratori che al sindacato non sono iscritti e quello di associare un maggior numero di lavoratori in organizzazioni sindacali che siano capaci di rappresentarli. Il declinante “tasso di sindacalizzazione” è quindi un primo problema da affrontare.
Un secondo problema è quello che gli economisti chiamano un “problema di agenzia”. Esso si pone ogni qualvolta un soggetto (chiamato “principale”) si serve dell’azione di un altro soggetto (chiamato “agente”) per realizzare i propri obiettivi e sussistono contemporaneamente due condizioni: una “asimmetria informativa” tra i due soggetti e una divergenza di obiettivi. Tale problema si verifica in molti campi della vita quotidiana: quando un individuo si affida alle cure del medico per curare la propria salute, quando un soggetto si affida al meccanico per riparare la propria automobile, quando un imprenditore si affida ai propri operai per
conseguire gli obiettivi dell’azienda, quando gli azionisti si affidano al consiglio di amministrazione per massimizzare il risultato del loro investimento, quando i cittadini si affidano ai rappresentanti politici per la realizzazione e la tutela dei propri interessi. Nel caso del sindacato il problema si può sintetizzare dunque in questi termini: come garantire che i rappresentanti sindacali che sono delegati dai lavoratori a tutelare i loro interessi nell’azienda e più in generale nella società civile agiscano effettivamente per perseguire questo obiettivo e non invece per fini di interesse personale. C’è una diffusa percezione che i “sindacalisti” trascurino spesso la tutela degli interessi dei lavoratori per ottenere invece, in virtù della loro posizione istituzionale, vantaggi personali. Non siamo ancora al livello della cattiva reputazione che in questo senso detengono “i politici”, ma non bisogna nascondere la testa sotto la sabbia e negare che questa percezione negativa (sia giusta, sia sbagliata) esista proprio tra i lavoratori e che sia anche abbastanza diffusa.
Un terzo problema è dato dalla carenza di preparazione dei rappresentanti sindacali, ossia dalla carenza di competenze relative agli strumenti e alle modalità di tutela degli interessi dei lavoratori in un contesto di complessità delle dinamiche economiche e della regolazione giuridico-istituzionale. Questa carenza può condurre da un lato a non valutare appropriatamente le scelte strategiche che sarebbero effettivamente utili per tutelare i lavoratori non soltanto nel breve ma anche nel medio/lungo termine e dall’altro a impuntarsi invece su questioni apparentemente utili ai lavoratori ma incompatibili con le dinamiche di crescita delle imprese e dell’intero sistema economico e quindi in ultima analisi controproducenti per gli stessi lavoratori. Può anche succedere che un rappresentante sindacale impreparato venga inconsapevolmente aggirato con concessioni da parte del datore di lavoro di fatto irrilevanti per la tutela dei lavoratori e ceda invece su questioni di maggior rilievo. Tale carenza di competenze è anche di ostacolo ad una partecipazione significativa del soggetto sindacale alle scelte strategiche aziendali e alle decisioni di politica economica, partecipazione che invece si profila come necessaria in un sistema di governance interattiva che dovrebbe essere caratterizzata, pur in presenza di oggettivi e innegabili contrasti di interessi (la “funzione obiettivo” del lavoratore si può considerare pressoché opposta a quella del datore di lavoro), da spirito cooperativo e da relazioni di fiducia.
Tutti e tre i problemi su esposti non vanno ignorati; il sindacato deve invece affrontarli operativamente se vuole evitare di rantolare in una lenta agonia, come tendenzialmente rischia di accadere per tutti i corpi intermedi, stritolati tra le forze della globalizzazione (talvolta cavalcate in maniera spregiudicata da alcuni operatori economici) e il potere delle istituzioni finanziarie.
Che fare? Non è difficile vedere come il problema della diminuzione del tasso di sindacalizzazione abbia la sua radice in due cause principali. La prima risiede nella complessa frammentazione del mercato del lavoro, che rende difficile aggregare posizioni lavorative e unità produttive tanto differenziate e in rapida trasformazione sotto un’unica forma standardizzata di tutela e di rappresentanza. Le stesse caratteristiche delle innovazioni tecnologiche, che presuppongono specializzazioni altamente differenziate, i “gaps” di produttività e la volatilità dei rapporti di lavoro fanno apparire preferibile in molti casi ai lavoratori tutelare individualmente i propri interessi scavalcando la forma sindacale. La seconda causa di riduzione della partecipazione sta però proprio nei problemi numero due e numero tre precedentemente menzionati, problemi che minano la fiducia dei lavoratori stessi nel sindacato e danneggiano la sua affidabilità sia presso le
controparti sia presso l’opinione pubblica e la società civile. Un grande impegno deve quindi essere profuso dal sindacato per risolverli. Il problema di agenzia si risolve sia riducendo le asimmetrie informative, e quindi introducendo efficaci meccanismi di trasparenza e di effettiva democrazia nell’azione sindacale a tutti i livelli; sia realizzando il massimo di convergenza tra gli obiettivi dei lavoratori “rappresentati” e dei sindacalisti “rappresentanti”. Il problema della carenza di preparazione si risolve da un lato curando veramente la “formazione” a tutto tondo dei singoli operatori sindacali e dall’altro potenziando i servizi di studio e documentazione delle organizzazioni sindacali. Se gli operatori sindacali e il sindacato in quanto tale non acquisiranno un’accurata conoscenza non solo delle tecniche di negoziazione e di contrattazione, ma anche delle dinamiche aziendali, dei relativi mercati locali e globali, del mercato del lavoro e degli scenari evolutivi dell’economia nel suo complesso, non potranno interloquire con autorevolezza e con efficacia per tutelare gli interessi dei lavoratori, e non potranno neanche individuare le linee strategiche più appropriate, di breve e di lungo periodo, per la propria azione. Abbiamo già abbastanza soggetti del nostro sistema istituzionale che, come si suol dire, “navigano a vista”, con risultati che forse evitano si gli scogli ma non mantengono alcuna rotta.
Ma tutto ciò non basta. Muoversi per risolvere positivamente questi problemi deve considerarsi come il primo passo, al quale deve necessariamente seguire un impegno più complesso e più profondo. Per far sì che il sindacato agisca efficacemente come soggetto collettivo, come libera associazione di lavoratori in un contesto di responsabilità e di cooperazione è necessario che siano profondamente rivisti sia i contenuti sia gli strumenti dell’azione sindacale. In altre parole, è necessario ripensare e ridisegnare l’intero sistema di relazioni industriali per renderlo adeguato ai mutati scenari economici e sociali. Si possono brevemente menzionare alcuni aspetti di questa evoluzione che costituiscono una sfida alla quale il sindacato deve dare risposte innovative perché nuovi, appunto, sono i problemi. Siamo davanti, in primo luogo, a un’intensificazione della competitività globale, alla quale sono legate svariate forme di delocalizzazione, abissali dislivelli nei labour standards e svariate forme di social dumping rispetto alle quali il sindacato deve individuare nuove strategie. La nuova divisione internazionale del lavoro, a sua volta, provoca dinamiche di cambiamento della composizione della produzione nazionale e flussi migratori che comportano problemi di trasformazione dell’apparato produttivo e rilevanti ripercussioni sul mercato del lavoro. La modifica delle quote distributive, ancora in atto nella maggior parte dei paesi industrializzati, pone problemi da affrontare sul piano delle politiche salariali, della povertà, dell’impoverimento del ceto medio nonché sul fronte della domanda aggregata. L’irruzione delle nuove tecnologie “skill biased” offre una spinta poderosa alla tendenza all’individualizzazione delle relazioni tra capitale e lavoro e richiede un aggiornamento degli strumenti e delle forme di rappresentanza degli interessi. Il crescente ruolo della conoscenza nei sistemi produttivi impone nuove forme di organizzazione del lavoro nelle imprese, nuove modalità di “management della conoscenza” e di conseguenza nuove modalità di relazioni di lavoro all’interno delle imprese.
Dalla consapevolezza e dall’approfondimento di questi aspetti bisogna partire per ripensare l’intero rapporto tra capitale industriale e lavoro, per individuare nuove forme di partecipazione e per superare i limiti delle relazioni industriali attualmente concepite fondamentalmente in un’ottica di scontro sulle variabili distributive e sulle rigidità delle condizioni di lavoro (nonché troppo spesso
ingabbiate in una prospettiva di contenzioso giurisprudenziale). Per tutelare gli interessi dei lavoratori in un’economia segnata dalle trasformazioni di cui sopra bisogna studiare e ripensare un insieme di nuovi contenuti, nuove forme organizzative e nuovi strumenti di azione basati su una visione delle relazioni industriali di più ampio respiro, fondata su relazioni di fiducia e spirito cooperativo, dove la composizione dei conflitti si risolva iscrivendo la contrattazione in una più vasta rete di accordi e di intese che coinvolgano i diversi soggetti (incluso il governo), i diversi livelli e i diversi elementi che compongono l’intricata e interconnessa struttura di un sistema economico complesso. C’è bisogno quindi di un impegno profondo di lungo termine, di una riflessione nella quale analisi teoriche, esperienze operative, evidenze empiriche si fondano in uno sforzo comune per individuare strumenti capaci di evitare che il sistema economico precipiti in una sorta di “giungla”, le cui leggi (contrariamente a quanto taluni possano pensare) non sono certo migliori delle, né preferibili alle, regole provenienti da una “governance” razionale, condivisa e partecipata, dei processi economici. Il sindacato non può non farsi carico di questo sforzo, non soltanto in nome della tutela degli interessi particolari dei lavoratori, ma come soggetto attivo di un sistema democratico che non può mai perdere di vista gli interessi collettivi né tanto meno sacrificarli o posporli a quelli particolari.
|